Arrivato tra i 5 prescelti da tutto il mondo, nella notte tra il 10 e l’11 marzo il film di Matteo Garrone si disputa l’Oscar come Miglior Film Straniero.
Sera del 13 settembre 2023 all’ArciAnteo di Milano. Dinanzi al pubblico in attesa arrivano Matteo Garrone, Seydou Sarr Moustapha Fall e Bamar Kane, reduci da Venezia dove il regista ha appena vinto il Leone d’Argento e Sarr il Premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente. Ci si aspetta che Garrone tenga banco ma non è così, dopo una manciata di minuti passa il microfono “ai ragazzi” perché dicano la loro. Parte Seydou gentile e spirituale come è stato alla premiazione di Venezia dove ha scelto di dedicare il momento fino ad ora più mediaticamente esposto della sua giovane vita non alla mamma, che pure se lo sarebbe meritato per aver tirato su un figlio così, bensì ai suoi coetanei viziati ventenni italiani (“I ragazzi italiani devono sentirsi fortunati perché non rischiano la vita per viaggiare mentre alcuni coetanei sono costretti a farlo”) Seydou all’Anteo usa tutto il suo tempo per dire grazie, grazie a Matteo, grazie alla famiglia e anche al compagno Moustapha. Quando tocca a quest’ultimo, diretto e spavaldo, rivela a tutti che sinceramente quando l’avevano scelto lui pensava di dover recitare in francese ma Matteo gli ha fatto un gran favore, gli ha detto che doveva recitare nella sua lingua materna, il wolof e questo gli reso tutto molto più facile e naturale. Questo piccolo aneddoto racchiude una delle scelte creative più difficili (Garrone in seguito confesserà che ha diretto a istinto, non capendo le parole ma concentrandosi sulla recitazione) ma più premianti del film, e quella che ha permesso a una sceneggiatura magica, a un cast di debuttanti eccezionali e a una fotografia epica di concretizzarsi in opera d’arte. Evitando il francese, la lingua coloniale, a favore della lingua madre dei suoi attori, Garrone è stato coerente fino in fondo con il centro della sua ispirazione: non raccontare una storia mai vista né udita dal punto di vista del testimone europeo, bensì dal punto di vista e dalla viva voce dei protagonisti. “Ho cercato di dare una forma visiva a una parte del viaggio di cui non esistono immagini – ci ha rivelato il regista- perché noi di solito sappiamo delle barche che arrivano, se arrivano, della partenza e di chi si lascia là ma non di tutto quello che sta in mezzo. Cosi ho voluto documentare l’odissea dei migranti, adottando il punto di vista di coloro che del viaggio sono i protagonisti e ho dato loro la parola, chiedendo agli attori di recitare nella loro lingua materna, in modo da portare il pubblico a immedesimarsi più facilmente” . Per questo abbiamo fatto il tifo per questo film quando da settembre in poi ha incrementato ogni settimana il numero delle sale italiane che lo richiedevano diventando campione di incassi, e poi quando l’Italia doveva scegliere l’opera da mandare a competere agli Oscar come Miglior Film straniero, e infine quando la giuria degli Oscar, tra tutti i film da tutto il mondo, ha incluso IO Capitano tra i 5 in finale. E per questo tiferemo per lui la notte degli Oscar il 10 marzo, sperando che la mattina dell’11 l’Italia si svegli con la bella notizia. Ma tiferemo per IO Capitano anche per tutti i giorni a venire perché – usando le parole dell’ altro componente del cast, Bamar Kane, questo film significa tanto perché è dedicato a tutte le persone che sono partite e che sono morte lungo la strada.