Ci credereste che un documentario di RAI 3 possa cambiare di punto in bianco il destino di una donna che per caso si trova in ascolto? E che questa donna, mamma di un bambino bisognoso di cure, da persona comune si trasformi in una attivista in prima linea, che da 5 anni non si concede pause, sostenuta da ambasciate, consolati e mass media, ma anche ostacolata da chi non vorrebbe che il fenomeno contro cui si batte venisse portato in pubblico, sui giornali, su Facebook, dinanzi l’opinione pubblica internazionale?
Perché il fenomeno descritto dal documentario che nel 2010 le ha cambiato la vita riguarda una verità molto triste, vale a dire il suicidio di oltre 60 bambini romeni che, arrivati all’età giusta per capire come fare, si sono tolti la vita pur di porre fine alla sofferenza per stare lontani dalle loro mamme, badanti “full time” in Italia.
“Tutto è iniziato nel 2010 alla fine di ottobre – racconta Silvia Dumitrache, arrivata in Italia dalla Romania nel 2003 per curare il suo bambino, fondatrice dell’Associazione Donne Romene in Italia – ADRI, dal 2011 consulente onorario del Comune di Milano nell’ambito del Forum “Città Mondo” – quando per caso vidi il documentario nato da una coproduzione italo-romena “A casa da soli” che trattava dei figli delle donne romene emigrate in Italia per fare le badanti e costrette a lasciare per anni i loro bimbi piccoli nel loro paese.
Per la prima volta venivano descritte con dati agghiaccianti le conseguenze di questo fenomeno che dai bambini veniva vissuto come un vero e proprio abbandono, insopportabile al punto da spingere oltre 60 di loro a togliersi la vita”. Della depressione denominata “Sindrome Italia” tipica delle badanti “7 giorni su 7”, per la maggior parte romene e moldave, si era già parlato sui media, in seguito agli studi condotti nel 2005 da due psichiatri ucraini, Kiselyov e Faifrych. Il nome “Sindrome Italia” nasce per la cronaca dal fatto che il nostro Paese detiene il record europeo del numero di badanti sulla popolazione globale.
Tormentate dai sensi di colpa per aver lasciato i loro piccoli a casa, sradicate dalla loro terra d’origine, queste donne vivono una forte crisi di identità spesso senza sapere a chi chiedere aiuto. Quel documentario raccontava la stessa storia, ma dalla parte dei bambini. “La notizia dei tanti suicidi infantili fu intollerabile – continua la Dumitrache – e decisi che dovevo fare qualcosa per sensibilizzare l’opinione pubblica su un fenomeno così feroce e sommerso al tempo stesso. Cosa poteva fare una persona comune come me, senza mezzi? Come trasformare in azione costruttiva la mia sofferenza per quei bambini e quelle mamme?” Da questa domanda coraggiosa e saggia nasce in Silvia l’idea di “Te iubeste mama – La mamma ti vuole bene”.
Questo è il nome della pagina che, alla fine del 2010, Silvia apre su Facebook, una “causa” per far emergere il fenomeno e trovare ascolto presso chi poteva decidere, fare, cambiare. “Il 6 gennaio del 2011 avevo già raggiunto circa 10.000 sostenitori e con questo numero potevo farmi ascoltare. Da chi? direste voi. Dalle mamme in primo luogo facendo prendere loro coscienza dell’importanza di un contatto diverso dalla semplice telefonata, un contatto visivo che permetta ai bambini di vedere il viso della loro mamma e di vedere nei suoi occhi l’affetto che per loro è un ingrediente insostituibile per la loro sopravvivenza psichica, in poche parole: condividere e ricevere amore”.
Sembrerebbe a prima vista una campagna di alfabetizzazione tecnologica ma in realtà l’ignoranza sull’accesso e sull’utilizzo di strumenti di comunicazione online è solo l’effetto di una difesa ben più profonda. “Mi rendevo conto istintivamente come mamma – continua Silvia – che guardare nel viso il proprio bimbo che si sente di aver abbandonato è molto difficile. A volte le mamme nelle poche ore di pausa si limitano solo a telefonare evitando il contatto visivo. Eppure in Italia esiste un luogo che abbastanza capillarmente offre una connessione gratuita anche per video chiamate: la biblioteca pubblica. Far prendere coscienza del problema, promuovere in ogni modo la comunicazione parentale e indicare la soluzione è stato il primo obiettivo di “Te iubeste mama”.
Il secondo obiettivo riguarda la badante non come mamma, ma come donna e lavoratrice. Molte di loro sono in preda ad una sofferenza psichica incredibile senza sapere che non è solo nostalgia ma è un malessere che è andato oltre e che si chiama sindrome depressiva. Sapere come si chiama quello che si ha è il primo passo per trovare una via di uscita. Come dare alle badanti gli strumenti per prendere coscienza della loro condizione collettiva, chiediamo a Silvia? “L’alfabetizzazione su internet è un mezzo molto concreto per incidere in modo veloce. Abbiamo organizzato corsi basici per indicare come usare i motori di ricerca a quali sono le parole chiave in italiano e romeno per trovare notizie, spiegazioni, centri di assistenza. In una parola: aiuto”.
Parallelamente al sostegno psicologico e familiare, l’attività di Dumitrache si è focalizzata sulle condizioni e sul rispetto delle regole dei contratti di lavoro che evidentemente, per persone che lavorano 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, non sono rispettate dal loro datore di lavoro .
Questo aspetto della sua attività, insieme alle iniziative dirette alla presa di coscienza della propria condizione hanno portato a Silvia riconoscimenti internazionali, tra cui una lettera di encomio da Sua Eccellenza l’Ambasciatore d’Italia a Bucarest , il sostegno dell’Ambasciata della Romania a Roma, del Consolato romeno di Milano nonché dall’AIB, l’Associazione Italiana Biblioteche. Considerata una delle “10 donne eccezionali” da uno dei più importanti giornali romeni, ha partecipato anche ad un libro in Italia, “Ripartire” della testata Frontiere News, dove racconta la sua storia di mamma guerriera.
E come tutte le guerriere, Silvia ha anche i suoi nemici. “ Ho incontrato molti ostacoli e subìto minacce perché con la mia opera di sensibilizzazione verso le mamme badanti 24 ore su 7 giorni sono scomoda. Per prima cosa per chi ha un vantaggio a sfruttare senza limiti la grande resistenza al lavoro delle donne bisognose. E poi anche da chi teme che questa campagna di sensibilizzazione offuschi l’immagine della Romania. In realtà in questa stessa condizione e senso di colpa vivono tantissime altre mamme migranti: filippine, moldave, sudamericane, che vivono la stessa situazione con i figli rimasti al paese di origine”.
“Per cambiare le cose è necessario dedicarsi al 100% – conclude Silvia. Il mio più grande grazie va a mio figlio che da sempre mi dà forza e ispirazione per migliorare me stessa e il mondo in cui vivo”.